
Negli ultimi 50 anni, più o meno, abbiamo cominciato a sentir parlare di Corporate Social Responsibility (prima in America), poi abbiamo visto che le grandi aziende si sono dotate di divisioni di CSR, sono comparsi concetti come “attenzione agli stakeholders e non solo agli azionisti”, si sono cominciati a fare i codici etici delle aziende, i report sociali e poi i bilanci di sostenibilità, è arrivata la teoria di Porter e Kramer sul “Valore Condiviso”, in Italia si è riscoperta “L’Economia Civile”, si è messo piano piano sotto accusa il neoliberismo spinto. E ancora, abbiamo ascoltato accigliati e pensosi managers parlare di responsabilità nelle loro aziende e di attenzione ai territori, e poi ci sono i fondi etici, quelli che investono solo in aziende che fanno business sostenibili, lo stesso boom della sostenibilità…
Insomma, si direbbe che siamo avviati ad un meraviglioso mondo di correttezza e responsabilità!
Ma manco un po’! Chiacchiere e distintivo. E con la compliance si prova solo a mettere una pezza.
Per carità, ci sono società, imprenditori e managers che la strada della responsabilità e del rispetto per il lavoro l’hanno imboccata per davvero, ma quanti sono? Per la maggioranza del mondo del business, quel che conta, ieri come oggi è il profitto, a tutti i costi.
In più, ieri le proprietà delle aziende erano in mano a persone fisiche o a società comunque riconducibili a persone fisiche, insomma, si sapeva chi era il “padrone”. Oggi molte aziende sono in mano a scatole cinesi di holding proprietarie di altre holding, magari a loro volta in mano a fondi. Le proprietà sono vaporose, in un certo senso inesistenti, comunque schermatissime. E i managers delle multinazionali, con poche eccezioni, hanno un unico obiettivo, far ridere i bilanci (e incassare succose stock options). D’altra parte non è un caso se 50 anni fa mediamente un amministratore delegato guadagnava 100 volte più di un operaio e oggi un Ceo (vorrai mica essere così vecchio da dire AD) guadagna migliaia di volte più di un suo lavoratore. Senza contare i padroni del web che incassano cifre senza più alcun senso. E non sarà un caso se sempre più ricchezza è in mano di un’oligarchia trasversale e internazionale che se ne strafotte di qualsiasi regola e vive in una sorta di totale impunità.
Per cui succede che un’azienda che lavora in Italia e magari va anche benino, dall’oggi al domani non esiste più. Qualcuno a migliaia di chilometri di distanza dall’azienda stessa, senza conoscerne storia e radicamento, ha schiacciato il pulsante off, e qualche schiavetto ben pagato si preoccupa di attuare l’off italiano, che vuol dire famiglie che dall’oggi al domani si ritrovano senza entrate. Domani riapriranno in qualche cazzo di posto dove produrre gli costa meno e faranno più margini per premiare gli azionisti (ma non eravamo entrati nell’era degli stakeholder?).
È la globalizzazione bellezza, e tu (io) sei un relitto del passato! Per fortuna la UE sta riuscendo a mettere almeno delle regole che influiscono sull’impatto ambientale delle aziende ma al sociale non ci pensa (quasi) nessuno.
Salvo qualche pianto di coccodrillo sui giornali se muore una bella ragazza giovane in una fabbrichetta di Prato. Peccato che tutti i giorni ci sono lavoratori che muoiono sui loro posti di lavoro, senza contare le situazioni da schiavitù del lavoro agricolo in nero di molte regioni del sud.
Questo mondo fa schifo perché è il regno dell’ipocrisia. O si capisce che il rispetto del lavoro e della dignità delle persone sono decisivi o si va verso la catastrofe sociale.
L’etica non è un lusso per pochi, è ciò che, forse, ci salverà.