È il capitalismo bellezza!

Il capitalismo è un sistema sostenibile? - Vipiù

Negli ultimi 50 anni, più o meno, abbiamo cominciato a sentir parlare di Corporate Social Responsibility (prima in America), poi abbiamo visto che le grandi aziende si sono dotate di divisioni di CSR, sono comparsi concetti come “attenzione agli stakeholders e non solo agli azionisti”, si sono cominciati a fare i codici etici delle aziende, i report sociali e poi i bilanci di sostenibilità, è arrivata la teoria di Porter e Kramer sul “Valore Condiviso”, in Italia si è riscoperta “L’Economia Civile”, si è messo piano piano sotto accusa il neoliberismo spinto. E ancora, abbiamo ascoltato accigliati e pensosi managers parlare di responsabilità nelle loro aziende e di attenzione ai territori, e poi ci sono i fondi etici, quelli che investono solo in aziende che fanno business sostenibili, lo stesso boom della sostenibilità…

Insomma, si direbbe che siamo avviati ad un meraviglioso mondo di correttezza e responsabilità!

Ma manco un po’! Chiacchiere e distintivo. E con la compliance si prova solo a mettere una pezza.

Per carità, ci sono società, imprenditori e managers che la strada della responsabilità e del rispetto per il lavoro l’hanno imboccata per davvero, ma quanti sono? Per la maggioranza del mondo del business, quel che conta, ieri come oggi è il profitto, a tutti i costi.

In più, ieri le proprietà delle aziende erano in mano a persone fisiche o a società comunque riconducibili a persone fisiche, insomma, si sapeva chi era il “padrone”. Oggi molte aziende sono in mano a scatole cinesi di holding proprietarie di altre holding, magari a loro volta in mano a fondi. Le proprietà sono vaporose, in un certo senso inesistenti, comunque schermatissime. E i managers delle multinazionali, con poche eccezioni, hanno un unico obiettivo, far ridere i bilanci (e incassare succose stock options). D’altra parte non è un caso se 50 anni fa mediamente un amministratore delegato guadagnava 100 volte più di un operaio e oggi un Ceo (vorrai mica essere così vecchio da dire AD) guadagna migliaia di volte più di un suo lavoratore. Senza contare i padroni del web che incassano cifre senza più alcun senso. E non sarà un caso se sempre più ricchezza è in mano di un’oligarchia trasversale e internazionale che se ne strafotte di qualsiasi regola e vive in una sorta di totale impunità.

Per cui succede che un’azienda che lavora in Italia e magari va anche benino, dall’oggi al domani non esiste più. Qualcuno a migliaia di chilometri di distanza dall’azienda stessa, senza conoscerne storia e radicamento, ha schiacciato il pulsante off, e qualche schiavetto ben pagato si preoccupa di attuare l’off italiano, che vuol dire famiglie che dall’oggi al domani si ritrovano senza entrate. Domani riapriranno in qualche cazzo di posto dove produrre gli costa meno e faranno più margini per premiare gli azionisti (ma non eravamo entrati nell’era degli stakeholder?).

È la globalizzazione bellezza, e tu (io) sei un relitto del passato! Per fortuna la UE sta riuscendo a mettere almeno delle regole che influiscono sull’impatto ambientale delle aziende ma al sociale non ci pensa (quasi) nessuno.

Salvo qualche pianto di coccodrillo sui giornali se muore una bella ragazza giovane in una fabbrichetta di Prato. Peccato che tutti i giorni ci sono lavoratori che muoiono sui loro posti di lavoro, senza contare le situazioni da schiavitù del lavoro agricolo in nero di molte regioni del sud.

Questo mondo fa schifo perché è il regno dell’ipocrisia. O si capisce che il rispetto del lavoro e della dignità delle persone sono decisivi o si va verso la catastrofe sociale.

L’etica non è un lusso per pochi, è ciò che, forse, ci salverà.

La fidanzata di Roma

Un racconto che fa molto bene agli occhi. Perché fa bene agli occhi? Semplice, perché Gabriela era veramente una gran bella ragazza (e oggi è una splendida signora cinquantenne, veramente affascinante).

Quindi con lei la domanda è sempre stata, “più famosa perché bella o più famosa per i risultati sportivi?” Difficile dare una risposta a questa domanda e capisco anche che possa essere irritante giudicare una professionista dello sport più per la bellezza che per le qualità di gioco. Ma tant’è, così va il mondo e non sarò certo io a farlo cambiare!

Gabriela esplode giovanissima, vince il suo primo torneo professionistico che ha solo 15 anni e già in quel primo anno di attività senior arriva alle semifinali al Roland Garros. Da lì inizia una carriera che in moltissimi prevedono straordinaria. E in effetti la carriera della bella argentina sarà senz’altro di altissimo livello ma meno di quanto si potesse supporre da quell’inizio fulminante. Un torneo dello Slam vinto, gli US open del 90, e altre due finali Slam perse, sempre contro l’arcirivale dell’epoca, la tedesca “rullo compressore” Steffi Graf. Poi altri 26 titoli in singolare sparsi dall’85 al 95.

Bella era bella Gabriela, con quegli occhi neri come la pece, i lineamenti affilati, il corpo snello ma muscoloso e le gambe, beh, che gambe! E poi quelle movenze un po’ maschili su un corpo così bello erano un mix di sensualità, e la gonnellina che svolazzava maliziosa… ce n’era di che mandare in visibilio il pubblico maschile ma, attenzione, anche quello femminile la adorava, immagino perché in lei vedeva un modello di femminilità forte e delicata allo stesso tempo.

E naturalmente Gaby giocava anche molto molto bene. Il dritto tipico da terraiola sudamericana, potente ma fin troppo arrotato, ma soprattutto un gran rovescio a una mano con cui sapeva usare con naturalezza qualsiasi rotazione (che abbia guardato molto Vilas da bambina mi pare evidente). Poi anche ottima padronanza a rete e buonissima mobilità. L’unico vero limite tecnico ce l’aveva nel servizio, macchinoso, poco fluido, molto liftato ma lento per una con il suo fisico.

L’altro limite, forse, lo aveva un po’ nella testa, nelle mille sfide (in verità 40) con la cannibale Graf, tante partite le ha perse proprio a un passo dalla vittoria, per mancanza di quel killer instinct che invece Graf aveva in abbondanza (sanguinosa la sconfitta nella finale di Wimbledon del 91, quando arrivò a due soli punti dal match). In ogni caso è stata la giocatrice che può vantare il maggior numero di vittorie sulla fortissima tedesca, undici.

Ma al pubblico di tutto il mondo che Gabriela vincesse meno (molto meno) di Steffi, importava ben poco, erano tutti per lei, sempre (tranne in Germania, of course). Erano tutti per lei perché era bella (e lo abbiamo già detto), ma anche perché era più umana, lasciava trasparire molto di più le sue emozioni, e perché nel suo gioco c’era forza ma anche creatività, fantasia, talento e rischio.

E in quale paese al mondo tutto questo poteva essere apprezzato di più? Ma è ovvio, in Italia! Gaby era un’autentica beniamina del pubblico romano che a lei ha riservato un tifo scatenato e passionale come soltanto ad Adriano. Celebre uno striscione cha appariva quando scendeva in campo lei “se attacchi mi attizzi”, c’è dentro un concentrato di amore e ironia.

E Gabriela quando giocava a Roma, in quell’ambiente così caldo, si trasformava, dava un calcio alle sue timidezze e dava veramente il meglio di sé. Vinse al foro Italico nell’88 – 89 – 91 e 92. Un Foro che ribolliva di una passione viscerale per una ragazza adottata a “romana ad honorem” sin dalla sua prima apparizione nell’85.

Gabriela chiuse la carriera agonistica a soli 26 anni, usurata non tanto nel fisico ma nella testa. Stufa della fatica mentale che lo sport a certi livelli richiede e desiderosa di vivere una vita “normale”. Dentro di lei non ardeva quella furia di vincere sempre, all’infinito, che caratterizza i cannibali dello sport. Ma come faceva ad essere un cannibale una ragazza così bella?

C’è però un’altra vicenda da raccontare su Gaby che dice tanto di lei; negli anni che vanno dall’89 al 93, fece irruzione come una bomba nel tennis femminile la serba Monica Seles. Seles giocava dritto e rovescio a due mani e colpiva la palla con un anticipo pazzesco. Al suo apparire non ce ne fu più per nessuna, neppure per la Graf, anche lei travolta dalla potenza di Monica. Ma nel 93 uno squilibrato tifoso della Graf, si avventò in campo su di lei (erano ad Amburgo) e l’accoltellò.

La ferita non era grave ma Seles rimase traumatizzata dall’episodio e si ritirò completamente per due anni dal tennis agonistico (per poi tornare “a spizzichi”). La WTA, l’associazione delle tenniste professioniste, propose di lasciare alla Seles il ranking di numero uno al mondo che si era conquistata a suon di vittorie sul campo, fino a quando la serba non avesse deciso di rientrare. Bene, dimostrando ben poca solidarietà (e io direi anche poca intelligenza) le 20 top ten votarono contro quella proposta della WTA. Tutte tranne una, Gabriela Sabatini.

A carriera finita la ragazza timida ha lasciato il posto a una donna sicura di sé, che si occupa di molte attività imprenditoriali con grande successo e non disdegna qualche match esibizione dove si presenta sempre in condizioni perfette, tonica come una trentenne. E per favore, non fate vedere a Clerici le foto di com’è oggi Gabriela; potrebbe fargli male al cuore!

Gabriela oggi

Hana e Jana, una storia di bellezza e di fragilità

Nel Rinascimento, per qualche strano motivo, in pochi anni e in uno spazio di pochi chilometri quadrati sono nati alcuni dei massimi geni dell’arte nella storia dell’umanità. Michelangelo, Leonardo, Raffaello, tanto per citare i tre nomi più universalmente conosciuti.

La Repubblica Ceca è un piccolo Paese, e per qualche strano motivo è da sempre una fucina incredibile di talenti tennistici, un po’ come l’Italia rinascimentale per l’arte.

Da Drobny a Kodes a Lendl in campo maschile (e tantissimi altri, diciamo così, minori); da Martina Navratilova a Lucie Safarova e attualmente Petra Kvitova e Karolina Pliskova in campo femminile.

Ma chi non ho citato? Loro, le due regine della bellezza e della fragilità: Hana Mandlikova e Jana Novotna. Hana del 62, Jana del 68.

Hana Mandlikova
Hana

Due talenti purissimi che negli anni a cavallo tra gli 80 e i 90, hanno veramente dato spettacolo su tutti i campi del mondo.

Diciamo la verità, il tennis femminile di oggi è abbastanza noioso. Ragazze che giocano tutte nello stesso identico modo, fatte crescere con lo stampino nelle academies dove si insegna un tennis “efficace”, in cui c’è pochissimo spazio per la creatività. Ecco, Hana e Jana di creatività, fantasia, immaginazione, ne avevano tantissima, forse anche troppa.

Cominciamo da Hana. Di lei Rino Tommasi – uno dei grandissimi del giornalismo sportivo – disse: “l’essere umano con più talento che sia mai entrato su un campo da tennis”. Quando vinse da giovanissima il Torneo dell’Avvenire a Milano, il presidente del Circolo raccontò: “se mai ho sofferto della Sindrome di Stendhal è stato quando ho visto giocare Hana”. Questi due giudizi riassumono perfettamente cosa fosse Mandlikova.

Purtroppo io non l’ho mai vista dal vivo, ma in TV molte volte e me la ricordo molto bene; il fisico atletico ma minuto, le gambe lunghe e veloci, sapeva fare tutto con facilità disarmante. Ogni suo colpo era una sorpresa, una creazione istintiva; nella testa e nel braccio aveva soluzioni che per le altre non erano neppure pensabili. Arte applicata allo sport.

Hana da ragazzina era cresciuta all’ombra (ingombrante) della già celebre connazionale Martina Navratilova ma, per nulla intimidita, aveva semplicemente detto che lei sarebbe diventata più forte. E appena si affacciò al grande tennis, la rivalità fra le due esplose prepotentemente.

Nate nella stessa città, Praga, cresciute nello stesso circolo, entrambe hanno abbandonato il loro Paese, ancora sotto la dittatura comunista, molto giovani (Martina diventando cittadina americana, Hana australiana), entrambe dichiaratamente omosessuali, entrambe straordinarie.
Ma, semplicemente, non si sopportavano.
Con una grande differenza che molto ha influito sulle rispettive vicende agonistiche: Martina, almeno dal punto di vista fisico, un po’ meno dal punto di vista psicologico, era una roccia e la sua carriera fenomenale è durata tantissimo, Hana invece era fragile.

Continuamente perseguitata da infortuni e problemi fisici dovette prendersi lunghi periodi di pausa dai tornei e appese definitivamente la racchetta al chiodo a soli 28 anni, stufa di dover lottare contro il suo fisico più ancora che con le rivali.

Nei pochi anni di attività “da sana” ha vinto 27 tornei in singolare di cui 4 Slam (e altre 4 finali Slam perse) e 19 titoli di doppio, tra cui un US Open proprio insieme alla rivale di sempre, Martina (per una volta riconciliate a favore dei media e degli sponsor).

Nelle giornate in cui stava bene ha letteralmente asfaltato qualsiasi rivale; nell’81 la Evert (la più forte di tutte su terra rossa in quegli anni), uscendo battuta da una semifinale a Roland Garros, disse: “mai visto un fenomeno così”.

E tuttavia Hana chiuse la sua breve carriera senza riuscire a vincere il torneo più prestigioso, quello a cui teneva di più, Wimbledon, il tempio del tennis.

E qui entra in gioco Jana Novotna. Ceca di Brno, anche lei grande talento, attaccante nata, una delle pochissime donne a fare sistematicamente serve and volley (come la Navratilova d’altronde).

Accadde oggi: Jana Novotna spezza il sogno olimpico di Monica Seles
Jana

Jana non è fragile nel fisico, Jana è fragile nella testa e quel suo attaccare continuo è frutto della grande bravura a rete ma le serve anche per risolvere rapidamente il punto più di istinto che di pensiero. E per sottrarsi all’ansia del confronto prolungato. In ogni caso Jana è fortissima, una top player, ma perde le finali importanti; se la fa sotto, le viene il braccino, la classica paura di vincere che fa impazzire i giocatori di tutti i livelli su tutti i campi del mondo.

Nel 93, in finale a Wimbledon, è avanti nel terzo set con Steffi Graf (ecco, lei la paura di vincere proprio non sapeva cosa fosse) 4 – 1 e 40 – 30 nel terzo set. Insomma, ha quasi vinto. Ma nel tennis il quasi non esiste. Steffi la rimonta e la schianta con tutta la ferocia agonistica che ha sempre avuto. Jana esce dal campo in lacrime, le sconfitte bruciano sempre, ma una sconfitta così, a un passo dalla gloria (tennistica) eterna fa ancora più male. E così matura in lei la decisione di affidarsi a Mandlikova come coach.

Le due ragazze si conoscono da anni, hanno fatto parte dello stesso team, si sono allenate insieme mille volte. Jana capisce che la spigolosa connazionale può finalmente aiutarla a scacciare le sue paure. Difficile che ci sia vera amicizia fra due giocatori o giocatrici fintanto che si è nel pieno dell’attività agonistica, la rivalità pesa.

Ma nel nuovo rapporto che si crea tra le due ragazze, entrambe con caratteri tutt’altro che facili, dopo tanti anni di conoscenza, nasce un’amicizia vera.

E finalmente nel 98, a 30 anni, alla quarta finale di un torneo Slam, alla terza sui campi londinesi, Jana, con il supporto e i consigli dell’amica coach, riesce a coronare il suo sogno e trionfa a Wimbledon. Fu certamente la vittoria di Novotna ma, molto, fu anche la vittoria di Mandlikova, quella vittoria che non era riuscita a conquistare da giocatrice.
I due talenti, insieme, avevano dato un calcio alle loro fragilità.

Novotna muore di tumore nel 2017 a soli 49 anni. Mandlikova vive negli USA e insegna tennis. C’è da sperare che riesca instillare nei suoi allievi anche solo un pizzico del suo talento e di quello della sua amica Jana.

Tacchi a spillo e scarpette chiodate

Chi è questa bella giovane donna? Una modella? Una che fa parte dello show business? Niente di tutto questo. Allora vi dico il nome, Barbara Bonansea. E scommetto che a quasi nessuno di voi questo nome dice qualcosa…

Bene, questa ragazza ha quasi 30 anni, anche se sembra più giovane, ed è una calciatrice, anzi è la “bomber” del calcio femminile italiano, attaccante esterna col vizio del gol.

Ma come, Vittorio? Non scrivevi solo di atleti che hanno smesso? È vero, ma ho fatto un’eccezione per Zlatan la settimana scorsa e ne faccio un’altra per Barbara oggi. Come dire, per simmetria narrativa. Un uomo famosissimo e una donna che non conosce quasi nessuno, ma entrambi accumunati dallo stesso sport, il calcio. Solo che per gli uomini come Zlatan il calcio è sì gioco e passione ma anche e in percentuale molto elevata, forse dominante, business e soldi.
Mentre per una come Barbara il calcio non può che essere solo passione. Perché il calcio femminile in Italia ha una visibilità sui media prossima allo zero e fa girare ben pochi soldi. Al contrario di ciò che avviene in molti altri paesi europei e negli Stati Uniti, dove il calcio femminile è in pieno boom di praticanti e di attenzione sui media.

Dunque com’è che a una ragazza viene in mente di praticare uno sport tra i più prettamente maschili e maschilisti? (Maschilisti nel senso che si tratta di un territorio dove le donne in genere hanno un ruolo, diciamo così, decorativo). Ci arriviamo, ma prima parliamo del ruolo delle donne nelle trasmissioni che raccontano il calcio.

Una volta non c’erano proprio, poi è arrivata – una trentina di anni fa – Alba Parietti che, seduta sul famoso sgabello della trasmissione Galagoal, parlava di calcio, intervistava giocatori e soprattutto metteva bene in mostra le sue belle gambe (niente da dire, proprio belle). Buona parte del successo di quella trasmissione era senza dubbio dovuto alla presenza dell’Alba nazionale, a tanti antipatica (a me no), ma sicuramente donna di forte impatto mediatico.

Da lì in poi, in tutte le trasmissioni che parlavano di calcio, c’è stata la presenza fissa di una bellona più o meno scosciata e scollata, generalmente relegata al silenzio più totale condito di sorrisini ammiccanti o, al più, a presentare l’immancabile “esperto” maschio. Assolutamente della serie donne oggetto. L’unica che è uscita dal cliché della bellona da arredamento è stata Ilaria D’Amico, giornalista reale e bella donna (a me comunque come giornalista non mi entusiasma per nulla).

Oggi a spopolare in queste trasmissioni e sui social è Diletta Leotta, gran bella ragazza – per carità – ma che non fa nemmeno finta di fare la giornalista. Lei è in quelle trasmissioni col dichiaratissimo scopo di esibire sé stessa. Una nota di bellezza femminile tra tanti maschioni muscolati e tatuati o un orpello da ostentare per aumentare l’audience? A voi care amiche l’ardua sentenza, che per me è ovvia. Ma questo è un altro discorso…

Torniamo a Barbara. Nasce a Pinerolo nel 91. È una bambinetta magrolina, vivacissima e piena di energia, “un maschiaccio” si direbbe con espressione un po’ stereotipata. Gioca in cortile e in campetti improvvisati con il fratello e i suoi amichetti, così, per puro divertimento.
Poi un giorno accompagna il fratello ad un allenamento nella squadra di un paesino dei dintorni e l’allenatore le dice di entrare in campo e giocare pure lei. Un puro caso (ricordate i racconti su Sara Simeoni e Valentina Vezzali?).

Lei è abituata a giocare con i maschi e dimostra subito di saperci fare. L’allenatore della “Bricherasio” ci resta di stucco e capisce che quella ragazzina va incoraggiata a continuare. Voilà, il caso si trasforma in vita!

Racconta che i genitori assecondano la sua passione e così tre volte alla settimana, con qualsiasi tempo, l’accompagnano al campo di allenamento a un’ora di macchina da casa. Sacrifici? Forse anche. Ma la realtà è che la ragazzina si diverte da morire ed è proprio brava! Gioca con i maschi, che vuol dire anche contro i maschi e contro lo scetticismo o lo scherno degli adulti. Ma mette tutti a tacere, perché come dice lei “il gioco è sempre lo stesso” e lei lo sa fare.

Da lì in poi è tutta un’escalation. Prima le giovanili del Torino, poi il debutto in Serie A, sempre con il Toro, poi il Brescia, dove viene trasformata definitivamente in attaccante esterna, sfruttando le sue doti di scatto, il dribbling secco e l’imprevedibilità.
Infine la Juve, sua squadra del cuore da sempre. Il coronamento di un sogno. Nella Juve si afferma definitivamente; vince scudetti e classifica dei cannonieri, pardon, delle cannoniere.

Ma in realtà non la conosce ancora nessuno perché, come dicevo poc’anzi, il calcio femminile nel nostro Paese non se lo fila nessuno. A livello di risultati la Nazionale italiana femminile paga la mancanza di interesse del Paese verso le ragazze che giocano, quindi paga la limitatissima base di atlete praticanti. Giocatrici che, salvo poche, non hanno la possibilità di fare le professioniste che vivono di sport, e che quindi devono fare enormi sacrifici per conciliare allenamenti e lavoro.

Metteteci pure un presidente di federazione, quel Tavecchio che mi chiedo come abbia fatto ad essere eletto in quel ruolo dal momento che si trattava di un mentecatto, maleducato e semi analfabeta, che etichettò le donne che giocano a calcio come “quattro lesbiche sfigate”, e capirete le condizioni anche psicologiche delle nostre ragazze! (Per fortuna Tavecchio è stato silurato nel 2017, ma resta lo schifo che uno così abbia rivestito un ruolo così importante nello sport).

Ma poi arriva una CT capace e grande motivatrice, Milena Bartolini, che forma un gruppo coeso, determinato e con qualche individualità di grande qualità tecnica (Bonansea su tutte). E arrivano i mondiali in Francia nell’estate del 2019 che la RAI, per fortuna, trasmette. Ed ecco che l’Italia, con molta sorpresa, si ritrova a guardare le donne che giocano a calcio.
Quella Nazionale suscita immediatamente simpatia. Ragazze belle, simpatiche, piene di grinta, che giocano divertendosi e facendo divertire.

Barbara è chiaramente la leader di quella squadra insieme alla capitana Sara Gama. Gioca a tutto campo, segna, e si dimostra una giocatrice di livello internazionale.
L’Italia femminile supererà un difficile girone di qualificazione e poi la Cina nel primo scontro diretto, per finire la sua avventura, battuta dal Belgio, nei quarti di finale. È stata grande l’ondata di simpatia e interesse suscitata dalle imprese delle nostre ragazze ai mondiali francesi e si sperava che quello fosse un punto di partenza per la crescita del movimento.

Bisogna dire che non sta andando in questo modo. Lo spazio per il calcio femminile in TV e sui media è tornato quasi nullo ed è un vero peccato perché all’estero invece il calcio femminile continua a crescere e coinvolge un numero sempre più alto di ragazze.S

e posso azzardare anche un mio personale giudizio, sulla base di qualche partita vista in quei mondiali 2019, è assurdo fare paragoni con gli uomini, ma il calcio femminile è assolutamente divertente e piacevole da guardare.

Comunque chapeau alla Bonansea e alle sue compagne che continuano a battersi nel loro sport con grinta e dedizione. Barbara poi è una ragazza discreta che non spiattella su Instagram tutti i cavoli suoi. Se pensiamo per esempio anche alle molte arbitro donne che si stanno affermando nel calcio maschile – e che si fanno ben rispettare – abbiamo uno spaccato di un mondo femminile nello sport che piace molto di più delle bellone da esibire mezze biotte nelle trasmissioni da bar. Perché agonismo e femminilità possono andare assolutamente d’accordo e l’emancipazione passa anche dal calcio.

Qui sotto trovate la versione video del mio articolo realizzata da Woman Times, che ringrazio.

Zlatan, la faccia sporca del ghetto

In questi appuntamenti con le storie di sport ho sempre raccontato di atleti che avevano terminato la loro attività agonistica; qualcuno da poco, molti da tanto, qualcuno non c’è più.

Per questa volta invece parlo di un atleta che, per quanto ormai quarantenne, è ancora pienamente in attività. Ibra, al secolo Zlatan Ibrahimovic, uno dei calciatori più seguiti in tutto il mondo, considerato un grandissimo al pari dei Messi, CR7, di Ronaldo “Il Fenomeno”, insomma uno che a pieno titolo fa parte del Gotha del calcio mondiale. Anzi, per me, più forte sia di Messi che di Cristiano Ronaldo.

Perché derogo dalla mia regola di scrivere degli atleti del passato? Semplice, perché Zlatan è stato protagonista di un episodio decisamente sgradevole pochi giorni fa; episodio che ha fatto già scorrere fiumi di inchiostro sui giornali e innumerevoli commenti social in tutto il mondo. Quindi credo che valga la pena di fare uno strappo e provare a capire chi è Zlatan.

Intanto, riassunto di cosa è successo per i pochissimi che non lo sanno. Nel derby di Coppa Italia di martedì scorso tra Milan (dove gioca Zlatan) e Inter, alla fine del primo tempo si è accesa una “quasi rissa” tra lo stesso Ibra e il centravanti dell’Inter, il belga di origini congolesi Romelu Lukaku, un colosso di quasi 100 Kg di muscoli (non che Ibra sia da meno). I due non sono venuti alle mani solo per l’intervento dei rispettivi compagni di squadra che li hanno trattenuti a forza; in ogni caso se ne sono dette di tutti i colori e si sono promessi di regolarla a cazzotti, come due malavitosi di periferia. Lukaku era veramente fuori dalla grazia di Dio, lui che in genere è giocatore correttissimo e persona gentile.

Che la rissa l’abbia provocata Ibra è fuor di dubbio. È lui che ha cominciato a insultare pesantemente, è lui che ha provocato. Accusato subito di razzismo, il giorno dopo lo svedese ha fatto un post in cui diceva: “Nel mondo di Zlatan il razzismo non esiste”, in realtà secondo me aveva una coda di paglia che non finiva più, perché le sue frasi provocatorie, pur non direttamente razziste, facevano riferimento a presunti riti voodoo fatti dalla madre di Romelu. Come a dire a un italiano “pizza e mafia”, quindi in realtà attingendo a piene mani agli stereotipi negativi.

Ma può uno come lui essere realmente un bastardo razzista? Secondo me no, e vado a spiegare perché. Zlatan nasce a Malmö in Svezia nell’81, figlio di immigrati fuggiti dallo sfacelo della ex Jugoslavia. Padre bosniaco mussulmano e madre croata cattolica.Cresce poverissimo nel sobborgo di Rosengard, quartiere ghetto di immigrati di tutte le razze. Nella civilissima Svezia, culla del welfare sociale, in realtà vivere in questo quartiere dell’emarginazione in cui la polizia non entra neppure e dove la legge è fatta dalle gang che controllano il territorio, non è affatto facile.

Zlatan cresce in un ambiente dove ti devi far valere con la forza (o con l’astuzia, o con la cattiveria), non certo con la buona educazione. E poiché lui di forza ne ha da vendere, non si fa mettere i piedi in testa da nessuno. Comincia la sua carriera di calciatore in Svezia per poi essere acquistato dall’Ajax e imporsi sin da quegli anni come uno dei giovani calciatori più forti d’Europa (parlo dei primi anni 2000).

In molti lo paragonano a Van Basten per visione di gioco e movenze eleganti. Un Van Basten decisamente più potente fisicamente e decisamente più duro. Fra l’altro Zlatan, avendo praticato le arti marziali, ha una capacità di movimenti acrobatici incredibile e si inventa dei gol tanto spettacolari quanto impossibili. Comincia a crescere il mito di “Ibracadabra”.

Noi italiani impariamo a conoscerlo nel 2004, quando con la sua Nazionale segna contro l’Italia con un gol di tacco in acrobazia spalle alla porta che lascia tutti basiti, giocatori in campo e tifosi davanti alla TV.

Nel 2004 comincia la parte italiana della sua carriera; prima alla Juve, poi all’Inter. Poi va al Barcellona di Messi (esperienza negativa) e poi di nuovo Italia e Milan. In ogni caso ovunque va, Ibra vince e fa vincere. E la povertà è un lontano ricordo, diventa uno degli sportivi più pagati al mondo e i suoi guadagni si contano in decine di milioni di euro all’anno. Non c’è che dire, niente male per il ragazzo povero venuto da Rosengard. E poiché fa gol pazzeschi, è fortissimo, ha personalità, è un leader naturale, cresce il suo mito su tutti i media e presso i tifosi adoranti, mito che lui sapientemente ha imparato a coltivare.

La sua carriera calcistica prosegue poi nel Paris Saint Germain, nel Manchester United e nei Los Angeles Galaxy, dove sembra che vada a raccogliere gli ultimi milioncini di dollari di una carriera stellare (ma senza Champions League). Nel frattempo il viso è sempre più quello di un guerriero mongolo e il corpo – un pazzesco fascio di muscoli – si riempie sempre più di tatuaggi. Assomiglia a un guerrigliero del libro e film “L’educazione siberiana”.

Un anno fa torna al Milan e alla sua età dimostra di essere ancora un atleta, un calciatore e un leader. E l’adorazione ruffiana dei media è sempre più forte.
Ibra ha senso dell’umorismo e quando dice di essere il più grande, addirittura “un dio”, lo fa sempre con quel quid di ironia che serve a stemperare le sparate. D’altra parte il personaggio è quello, divisivo. Amatissimo o detestato, senza mezze misure.

Insomma, che l’ex ragazzo povero abbia un “ego ipertrofico” non c’è dubbio, ma la sua maschera da durissimo e cattivissimo è anche un po’ una costruzione del personaggio.Z latan ha capito di piacere così, e un po’ ci è e un po’ ci fa.

Ora torniamo alla quasi rissa con Romelu. Non c’è dubbio che Zlatan ha sbagliato, non c’è dubbio che la sua voglia di sentirsi sempre l’indiscussa star della rappresentazione lo ha portato a esagerare, a una inutile e sgradevole provocazione fatta col preciso scopo di far saltare i nervi all’avversario.

Non c’è dubbio che ha dato un brutto spettacolo di arrogante bullo e penso che una bella squalifica ci stia tutta. Ma per favore non esageriamo, sui campi di calcio (e non solo) ci si è sempre insultati e menati. In un certo senso fa parte del gioco, squalifiche comprese. E lasciamo perdere il razzismo, l’ex ragazzo di Rosengard, cresciuto tra tutte le razze reiette del mondo avrà altri difetti, non quello di non sapere che le differenze tra esseri umani dipendono dalla testa e dal cuore che hai, non dal colore della pelle o dal paese in cui sei nato.

Ferlinghetti e le dune di Capocotta

Ho letto qualche ora fa che è morto Lawrence Ferlinghetti, uno dei grandi guru della Cultura Beat, insieme a Jack Kerouac e Allen Ginsberg. Per la verità io credevo che fosse morto da anni e invece se n’è andato oggi alla bella età di 101 anni (il che vuol dire che la droga “buona” tanto male non fa).

Ora, io non ho alcuna competenza per dire se Ferlinghetti sia stato, o no, un grande poeta, so che però nei mitici anni 70 bisognava dire che lo conoscevi e disquisire qualche cosa di ispirato a riguardo. Ma a me il nome di Ferlinghetti – di origini italiane e laureato alla Sorbona – fa venire in mente una cosa sola. Il festival della poesia, che si inventò quel genio assoluto che fu Renato Nicolini, assessore alla cultura a Roma negli anni 70.

Nicolini diventò assessore nel pieno degli anni di piombo, quando tutti i sabati ragazzi che pensavano di essere fascisti e altri ragazzi che pensavano di essere comunisti, si scontravano e si ammazzavano pure. Senza contare il terrorismo vero e proprio. Nicolini si inventò le estati romane: danze, teatro, “performances”, musica, in tutta Roma a tutte le ore e… magicamente fece cambiare il clima psicologico della città. La felicità tornò a fluire all’improvviso.

E Capocotta? Bene, lì, dicevo, si fece il festival della poesia. Tra le splendide dune di quel paradiso si riversò una moltitudine di finti hippy alla matriciana, per ascoltare – appunto – anche Ferlinghetti, Ginsberg e poeti esistenzialisti de noantri. Performances in americano e in trasteverino; una densa nuvola di fumo di marjuana che aleggiava su tutta la cosa laziale, gente che scopava e gente che meditava colta dall’estasi artistica. Nessuno che capiva che cavolo dicessero sti santoni del peace and love a 10 anni di distanza dalla fine del peace and love, ma far finta di capire faceva veramente figo.

C’ero anch’io, e quando tornai a casa all’alba, per qualche ora, ebbi la sensazione di aver capito “la verità”. Giusto il tempo di smaltire un po’ tutto.
Le dune di Capocotta nei decenni ne hanno viste di tutti i colori, ma quella volta credo che si siano divertite anche loro.

Ferlinghetti